La periodizzazione e le fonti

Tra gli errori più frequenti che si possano fare tentando anche solo un approccio minimo con la storia (dell’arte), uno consiste sicuramente nel credere che le umane vicende abbiano un inizio ben preciso, un tempo-vita determinato ed una fine da poter stabilire in modo altrettanto netto. Niente di più sbagliato. La storia è un elemento continuo, fluido, mutevole, una parata colorata e chiassosa di persone e cose che sfilano davanti ai nostri occhi ininterrottamente; un fondersi di liquidi che passano continuamente attraverso membrane semipermeabili. La storia, come uno spartito musicale, accoglie dei semplici segni che si combinano e si mescolano incessantemente per creare atmosfere e suggestioni che a volte sembrano ripetersi, altre invece ci appaiono come cose e fatti totalmente nuovi. L’arte, manifestazione del sentire umano, quindi parte integrante della storia, è sottoposta, come ogni altro fenomeno, a queste leggi, a questi flussi e deve essere letta con spirito attento, predisposto a cogliere le sottili, spesso impercettibili, relazioni segrete che esistono tra il tutto ed ogni sua parte.

Mi spiego meglio. Si rivela fondamentale porre l’attenzione sul problema della periodizzazione, una questione che riguarda qualunque tipo di ricerca e che deve essere considerata per sgomberare il campo da inutili preconcetti o sfasature ingenue. L’uomo, nel tempo, ha cercato di organizzare le vicende storiche entro dei compartimenti, creando dei quadri molto ampi, degli insiemi, contenenti numerosi sottoinsiemi, che possono intersecarsi, unirsi, relazionarsi tra loro.

Quindi, una cosa sarà l’analisi generica dell’insieme (l’intero), altra cosa sarà l’esame di uno o più elementi (la parte) contenuti nel suddetto insieme. Una visione vasta e dilatata dei fenomeni permette di rintracciare, o tracciare, alcune linee di fondo, alcuni punti fermi dell’intero complesso scientifico, letterario e artistico proprio di una determinata epoca. Bene. Tra il tutto e le parti esiste un rapporto di complementarità, la visione ampia è costituita dall’insieme di tutte le vicende particolari e, queste ultime, non possono sussistere prescindendo dalla matrice generica in cui le troviamo inserite.

Nell’introduzione di un suo celebre libro, il critico Mario Praz [1] (1896-1982) parla di ‘categorie empiriche‘ che ‘rispondono a una funzione utile, purché si trattino per quello che sono, cioè delle approssimazioni’. È fin troppo chiaro che le periodizzazioni, cioè questi ‘confini’, queste categorie empiriche in cui sono stati sistemati gli eventi storici, servano per semplificare le cose, per rendere tutto facilmente leggibile, permettendoci di poter ragionare attraverso meccanismi deduttivi e induttivi, consentendoci di stabilire confronti su vasta scala tra le varie aree sapientemente relegate entro tali limiti.

Ogni scelta metodologica di studio (storica, esegetica, estetica, filologica, sociologica), deve necessariamente presupporre il problema della periodizzazione come elemento basilare su cui far poggiare qualunque tipo di speculazione e qualunque formulazione teoretica. Per fare un esempio concreto: io posso studiare un quadro generale che si chiama Romanticismo e, volendo essere ancora più specifica, potrei ridurre il campo studiando il Romanticismo inglese, e in questo panorama potrei concentrare la mia attenzione su un elemento particolare come per esempio l’operato di un certo artista, la sua formazione, la sua tecnica pittorica, etc… Oppure potrei affinare ulteriormente la mia ricerca e studiando, non so,  il Rinascimento fiorentino, potrei concentrarmi su una specifica bottega artigiana e focalizzarmi sulla composizione chimica dei colori, dei pigmenti utilizzati dall’artista che voglio analizzare oppure potrei indagare sulle strutture geometriche e matematiche che formano l’impianto stesso delle sue opere, creando così dei collegamenti esatti tra discipline che, apparentemente, sembrano vivere distanti le une dalle altre.

Inoltre, affinché possa esistere la storia dell’arte, devono necessariamente preesistere (ma non per forza coesistere, contemporaneamente) due fattori: le opere (i manufatti realizzati) e gli artisti (gli artefici di tali manufatti). Faccio un esempio. In un mercato antiquario viene trovata un’opera d’arte notevole, ma ne ignoriamo l’autore; essa quindi, ad un’analisi stilistica approfondita, diventa un’opera di ‘ignoto della prima metà del XV secolo’, per esempio; o, al contrario, esistono nomi di artisti che brillano, non sempre di luce propria, come corpi celesti lontani ed irraggiungibili nella vastità infinita della storia umana eppure il catalogo completo delle loro opere è difficile, a volte impossibile, da organizzare in maniera esaustiva e realistica. Quindi l’autore e l’opera naturalmente preesistono, riguardo alla storia dell’arte, ma non è scontato che si possa sempre creare un binomio esatto, una corrispondenza certa, tra i due elementi.

In entrambi i casi, gli storici dell’arte agiscono come una sorta di operatori sociali che cercano di dare una paternità all’opera rimasta orfana, oppure tentano di rintracciare alcune opere da far adottare ad un autore già noto… L’opera d’arte, che sia la Madonna di una tavola trecentesca dipinta a tempera, un capitello in marmo con elementi zoomorfi o il rilievo di un cameo in onice, rappresenta, secondo una visione ‘individuale’, il fine, la conclusione dell’intero processo mentale e pratico che ha arrovellato l’animo dell’ artefice in questione.

Ma questa stessa opera, se guardata con un occhio più propriamente storico, quindi secondo una visione collettiva, diviene, al contrario, l’inizio, il principio di una ricerca che, tentando di procedere a ritroso nel tempo, intenda portare alla luce tutti gli elementi che hanno favorito la nascita di quell’opera in quel determinato ambiente (geografico, storico, sociale, culturale). Ogni opera d’arte è legata strettamente al contesto ideologico e fisico in cui è stata elaborata mentalmente e poi creata su una tavola di legno, sul marmo, sulla tela di lino… I personaggi ‘spiati’ da Vermeer, che si muovono silenziosi, immersi nelle stanze traboccanti di luce nordica, risultano ovviamente completamente diversi da quelli fissati nei grovigli affollati e colorati dipinti in Messico da Diego Rivera… Proprio per fare due esempi assolutamente distanti tra di loro.

Queste considerazioni sembrano scontate, ovvie, ma lo sono soltanto perché in realtà non poniamo la giusta attenzione nei loro riguardi. Il mondo, le cose, così come si presentano (da sempre) ai nostri occhi, sembrano spesso degli elementi che vivono di vita propria; slegati, scollati dal quadro generale in cui invece nascono, si sviluppano e vivono. Per le opere d’arte è la stessa cosa: nessuna opera dovrebbe essere considerata ‘in sé’, come elemento autonomo o come tassello finale di un percorso conoscitivo personale, bensì come elemento collegato ad altri elementi e come punto di partenza per compiere un’indagine storico-artistica, qualora lo si voglia fare, ovviamente.

Per lo studio della storia dell’arte occorre quindi affidarsi allo studio delle fonti della storia dell’arte. Nel tempo ci sono stati uomini che hanno assunto, inconsapevolmente, il ruolo di conservatori di beni culturali e che hanno contribuito a creare una specie di documentazione indiretta, ma utilissima, per ricostruire certe vicende artistiche; basti  pensare all’importanza di un ‘banale’ atto notarile d’archivio o di una nota catastale riguardanti la vita di un artista. Tutta la documentazione indiretta e quella diretta, cioè propriamente attinente all’arte, hanno formato, nel corso dei secoli, una fitta trama di parole, un’immensa letteratura artistica da cui poter attingere e che si presenta come un enorme contenitore aperto in cui si possono inserire sempre nuove informazioni.

Quindi, dicendo ‘arte’ intendiamo l’oggetto, il manufatto creato da un artefice; mentre con ‘storia dell’arte’ (pur non potendo prescindere dagli elementi basilari opera-autore), si intende ciò che fonda il proprio esistere su tutta la letteratura inerente agli artisti e alle opere. La storia dell’arte (come la storia della musica o della filosofia…), nasce grazie all’insieme delle fonti scritte inerenti (in modo diretto e indiretto) all’arte stessa. Ricettati antichi, biografie di artisti, diari, guide, contratti, corrispondenza privata, inventari, documenti d’archivio di varia natura, studi critici e filologici, articoli e note sui restauri, sulle aste e sulle vicende che hanno coinvolto le opere d’arte… Riguardo a quest’ultimo punto mi riferisco ad eventi storici o naturali, come ad esempio le requisizioni naziste o l’alluvione di Firenze del 1966.

Concludo con una straordinaria annotazione che Anthony Blunt [2]  (1907-1981), docente di Storia dell’Arte all’Università di Londra, fa nella premessa di un libro che io amo molto; egli fornisce qui un’illuminate precisazione sull’utilità delle fonti letterarie (quindi dell’intera letteratura artistica che si è formata nei secoli),  per lo studio della storia dell’arte.

‘Questo libro è destinato a quegli studiosi della pittura […] che si rendono conto di come non sia sufficiente basarsi sulle sole opere lasciate dai pittori di quel periodo; si può infatti raggiungere una maggiore comprensione di tali opere e dei vari movimenti artistici se si è al corrente di ciò a cui consapevolmente aspiravano gli artisti. Una tale concezione è utile specialmente sotto due punti di vista: ci può spesso fornire la chiave per comprendere le tendenze di una forma d’arte che altrimenti rischierebbe di apparire  misteriosa, e può essere usata come mezzo di controllo delle proposizioni teoriche che è fin troppo facile individuare nelle opere d’arte che dobbiamo interpretare. Se notiamo una certa caratteristica in un dipinto e constatiamo poi che essa è elevata a teoria dai trattatisti del tempo, possiamo essere più che sicuri che in quello stesso dipinto una tale caratteristica esiste davvero e non è una creazione della nostra fantasia’

Guardare con attenzione un’opera d’arte, non significa soltanto poter beneficiare massimamente di un’esperienza psico-emotiva  che soltanto l’arte, in ogni sua declinazione, può regalare; significa anche fare la conoscenza dell’autore di quell’opera, arrivando perfino ad immergersi nel clima culturale e sociale in cui l’autore stesso era (o è) immerso.

Lucia Borri


[1] Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica

[2] Anthony Blunt, Le teorie artistiche in Italia. Dal Rinascimento al Manierismo

2 pensieri su “La periodizzazione e le fonti

  1. Sono pienamente d’accordo con il contenuto di tutto l’articolo e in particolare con questa frase quasi conclusiva ” Guardare con attenzione un’opera d’arte, non significa soltanto poter beneficiare massimamente di un’esperienza psico-emotiva” .
    Personalmente ritengo che anche colui che “fa” arte debba essere assolutamente consciente che la propria arte, se vera arte, non può limitarsi a una riproduzione della propria esperienza psico-emotiva, ma deve ricollegarsi, magari spezzandola, o contraddicendola, all’insiene della realtà in cui il suo vissuto si concretizza.

    1. Perdoni il mio imperdonabile ritardo. La ringrazio per il sottile commento. In effetti credo anch’io che l’arte rappresenti un’esperienza che deve necessariamente procedere seguendo (almeno) due vie parallele che, in estrema sintesi, possono identificarsi in un quadro ‘particolare’ che sposi perfettamente o contesti massimamente un quadro ‘generale’. Quadro generale in cui il particolare si trova (suo malgrado) collocato; collocato secondo parametri spazio-temporali, ovviamente. Inoltre, sono convinta che l’esperienza personale (di qualunque natura sia) rappresenti una sorta di limite se non trova dei canali, dei collegamenti, dei ponti che riescano ad unirla e, allo stesso tempo, a distanziarla da tutte le altre possibili esperienze personali fatte da noi e/o degli altri. Grazie.

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